Vero, graffiante e a
tratti arrogante è “La melodia dei perdenti”, romanzo d’esordio di Simone
Pagiotti. Ambientato a Perugia dà al lettore occhi nuovi
per scrutare le strade, i vicoli e le campagne; ma anche per rivedere
atteggiamenti, usi e costumi dei giovani umbri. Vi è un esplicito ed amaro elogio
della provincia, della sobrietà dello stare distanti, senza nemmeno il segnale
del cellulare. Stilisticamente scorrevole, lascia il passo ad espressioni
forti, ad aneddoti bollenti, non ci sono giri di parole per descrivere
frustrazione, angoscia e solitudine: i sentimenti predominanti del protagonista
che si ritrova trentenne senza niente. Lasciato dalla fidanzata prima del
matrimonio, licenziato bruscamente dal lavoro, isolato da vari contesti sociali
(volutamente e non). Perdere tutto. E cosa significa? Chi è perdente? Forse chi
non brama di ostentare felicità e benessere? Oppure chi è costretto ad
accettare una condizione di vita che non immaginava di vivere? Ce lo chiediamo
tutti. Ognuno ha il proprio punto di vista, ma perdere, ne “La melodia dei
perdenti”, assume un valore assoluto, è saper lasciare alle spalle quello che
fa male, che porta a vagare nell’effimero, nelle serate alcoliche, nelle liti,
nelle relazioni sessuali anche poco gratificanti. Perdere è dunque rinascere.
Il protagonista lo fa ripartendo dalle sue radici, dai nonni e dalla vita in
campagna. I personaggi, contenutisticamente parlando, hanno tutti un profilo
definito, sembra alla fine di conoscerli personalmente. Anche il gatto, fedele,
assume un ruolo dominante. A legare, a mettere insieme la prima e la seconda
parte del romanzo, scritte in momenti diversi della vita dell’autore, è il
fischiettare instancabile del nonno. Si sente, si riconosce e si segue
dall’inizio fino all’ultima pagina.
Floriana
Lenti