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“E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio”. (Tiziano Terzani)
Ricordare è un metodo per andare avanti, per migliorare. Avere memoria di quello che si fa, di ciò che si vive è indispensabile per non ripetere gli errori commessi e per trasmettere agli altri il passato tramite la condivisione e il dialogo. Ad ottobre, durante la missione Time for Responsibilities (in Israele e Palestina) ho visitato il museo della Shoah a Gerusalemme. Shoah (in lingua ebraica השואה ), significa “desolazione, catastrofe, disastro”. A scuola ho studiato l’olocausto, ho letto libri, mi sono documentata, eppure in Medio Oriente mi sono immersa in un contesto difficile da esplicare e impossibile da dimenticare: un viale alberato conduce all’ingresso. Ci sono delle targhe con i nomi di chi aveva compreso l’orrore e aveva aiutato gli uomini ebrei a trovare salvezza. Appena varcato il portone, una struttura grigia risucchia lo sguardo e lo stomaco in un vortice di sensazioni, la prima: claustrofobia. Stanze piene di oggetti di donne, uomini, bambini. Camere in cui è possibile vedere l’entrata, ma non si scorge l’uscita. Eppure c’è, solo per passare in una dimensione sempre più tetra, realistica. Stelle, da applicare su giacche per farsi riconoscere. E nomi. Tantissimi nomi. Troppi. Spesso accompagnati da fotografie. Il museo a Gerusalemme si chiama Yad Vashem che significa: memoria e nome; l’obiettivo è infatti quello di ridare identità a chi l’ha persa. Non riuscivo a commentare, a cercare una ragione. Ho solo silenziosamente osservato. Ed alla fine del percorso la sensazione di vertigine. I brividi lungo la schiena, le mani tremolanti. Pensavo: è solo un millesimo di quello che hanno vissuto loro?! La brutalità dell’uomo è arrivata ai limiti. Poi mi sforzavo di elencare le amenità: guerra, odio, ingiustizia, sopraffazione, sfruttamento, violenza, sterminio. Sterminio. Quando i deportati arrivavano ad Auschwitz venivano privati di tutto quello che avevano, gli venivano rasati i capelli e da quel momento diventavano un numero, tatuato sul loro braccio, erano tanti i motivi per cui venivano fatte queste pratiche, il primo è l'annientamento della personalità. Indebolire il prossimo per poi annullarlo prima moralmente, poi fisicamente. E' dalla memoria che si deve ripartire.
giuste e sante parole Flò...gli ebrei ora chiedono insieme al resto del mondo di non dimenticare affinchè non venga più commesso uno scempio simile... eppure io vedo ancora guerre sparse per il mondo...eppure israele attacca palestina, proprio loro... a volte l'uomo è un essere incomprensibile mosso da pulsioni incontrollabili, più che da ragioni inattaccabili.
RispondiEliminasora Gabriella
Ci si parla nel silenzio, bellissimo...Davanti a certi dolori non esiste altro; nessuna parola restituirà identità o dignità a coloro a cui è stata sottratta la vita. Non solo l'olocausto degli ebrei, ma anche quello degli armeni, le pulizie etniche di tempi più recenti. Nel giorno della memoria ridiamo un nome a tutti.
RispondiEliminaMarianna